di Pasquale Lettieri
Un lavoro alchemico, basato sull’energia delle materie, sull’assemblamento singolarmente enigmatico, forme originarie, che vengono installate con inquietanti risultati, tra lo sciamanesimo e il rituale, fanno di Pier Paolo Calzolari un artista di assoluta poesia. Uniti da un singolare linguaggio archetipico e postmoderno al contempo, in realtà i suoi lavori non sono universi conclusi, ma inscenano spazi mentali e rituali dissacratori, alla ricerca, da vie diverse, di un rapporto tra arte e vita.
Il concetto di arte povera nell’artista è molto elastico, nel senso che riesce a comprendere tante cose estranee tra di loro e dal punto di vista materico lontane anni luce dai materiali canonici della pittura e della scultura, in ciò riprendendo un atteggiamento dadaista, di coinvolgimento di legno, pietra, vegetali, plastica, neon, scarti industriali nel lavoro di costruzione di opere in cui prevalgono atteggiamenti di critica corrosiva all’arte tradizionale, intesa in senso estensivo e comprendente anche astrattismo, informale, ma anche opere cubiste e futuriste, quello che qui sparisce è il pennello e il disegno.
Materia pura, sale, piombo, fuoco – tanto fuoco – e raffinata tecnologia, dialogante con un impossibile classicismo, di cui si avverte il fascino e la prepotenza, ma anche l’assoluta distanza da una realtà traballante ed incerta, in cui per ogni raffinatezza, per ogni preziosità, sono in agguato enormi quantità di prodotti con data di scadenza, la cui campana a morto può suonare in qualsiasi momento.
Calzolari, per me il vero caposcuola del poverismo, scatta in avanti con un grande inseguimento, distruttivo, al consumismo e alle carature alienanti dell’universo degli oggetti inutili, costosi, degradanti, che circondano gli abiti, dall’impacchettamento suadente (perché apparire è meglio che essere) fino alla plastica, nella disfida tra il biodegradabile e l’inquinante, in un circolo vizioso che appartiene alle sfumature della società dello spettacolo e soprattutto del sistema della moda, che non dà respiro a nessuno, nella sua corsa all’obsolescenza, al ricambio, all’abbandono, all’inquinamento.
Non tutto ciò che esiste si mostra. Non tutto ciò che si mostra resiste.
Ma tutto ciò che resiste, in Calzolari, brucia piano e diventa epifania. C’è un punto in cui la materia cessa di essere materia e diventa pensiero. È il luogo sacro in cui lavora Pier Paolo Calzolari: artista-alchimista, filosofo dell’effimero, costruttore di silenzi. Le sue opere non si lasciano catturare, ti interrogano, ti pungono, aprono una ferita metafisica.
In un’epoca in cui l’arte spesso grida, Calzolari scrive il silenzio.
La fiamma, il ghiaccio, il pane, la scrittura, la muffa: nulla è minore, nulla è ornamento. Ogni elemento è portatore di una presenza che consuma, che non chiede permesso, ma che inter-esse, cioè “sta in mezzo”, come direbbero i latini, tra il reale e il simbolico.
In Calzolari l’arte è un atto di resistenza. Una pratica dell’anima. Un esercizio di sottrazione. Il niente è minimo, il pensiero massimo. L’opera non vuole piacere: vuole resistere. Come una spina sotto la pelle. Come un’intuizione che brucia nel tempo.
Come un fuoco che non si spegne, Calzolari scrive il silenzio. E ci ricorda che la bellezza autentica si affiora quando il pensiero, in silenzio, si rivela. Come il sale. Come la polvere.
Come ricorda che affiora da un angolo della memoria: “In minima maxi sensus latet.”
Nel minimo, si nasconde il senso più vasto.