Le prime luci dell’avanguardia risalgono all’inizio dello scorso secolo, eppure continuano a emanare un inequivocabile chiarore che giunge fino a noi, segnando un’epoca in cui la sperimentazione è diventata un habitus, un modo d’essere. Ma proprio per questo si è trasformata anche in un dogma: ciò che è sperimentale viene spesso considerato automaticamente superiore a ciò che non lo è, così come ciò che è originale prevale, per principio, su ciò che risulta familiare o derivato.

Per Mauro Maurizio Palumbo, sperimentazione e originalità rappresentano un modo di concepire l’arte che talvolta scivola nella ritualità del costume, più che nelle molteplici variazioni dei linguaggi dell’immaginario. Linguaggi che si fanno carico delle contraddizioni della cultura di crisi, costretta ad affermarsi e negarsi al tempo stesso, per non essere travolta da una modernità che consuma e destabilizza le coordinate dello spazio e del tempo, su cui si fondano il senso comune e la ragionevolezza stessa.

La riscrittura scenica totale della pièce exPost, fondata sulla leggerezza e sulla mutevolezza, impone le sue regole a ogni livello, trasformando la ricerca in una forma di schiavitù necessaria, pena l’esclusione da un iperrealismo tecnologico sempre più pervasivo. Un iperrealismo che si insinua tanto fuori quanto dentro il corpo, alimentando una crescente spettacolarizzazione del mondo, dove l’individuo assume sempre più il ruolo di variabile non fondamentale.

Che l’individuo sia reale o virtuale, poco importa, quando il primato è dell’apparire e non dell’essere. Allora tutto può accadere — e tutto, in effetti, accade: uomini e donne ridotti a pezzi di ricambio per altri, villaggi asiatici in cui i neonati vengono fatti sparire perché procreati per fornire organi o cellule alla ricerca scientifica. In questo contesto, anche le provocazioni artistiche storiche appaiono innocenti: il disabile mentale esposto alla Biennale di Venezia, Marina Abramović che pulisce ossa di animali, Gina Pane che si incide il corpo, Stelarc sollevato da una gru come un quarto di bue in macelleria.

Questa volta, però, la provocazione si fa ammiccante, persino sensuale: corpi messi in scena come sculture viventi, offerti per una riflessione sulla potenza dello sguardo e del contatto, contro quella malattia del consumo che è la simulazione, e contro quell’alterazione del vedere che si chiama voyeurismo. Intrecci sentimentali silenziosi, rappresentati nello spazio privato di una stanza dove siamo ammessi tutti, tranne che nel gesto del tatto, che resterebbe un’avances.

L’intera operazione di Palumbo si presta a una messa a punto del linguaggio dell’eros, in un’epoca dominata dalla vittoria del pornografico e del perverso, con un’espansione dell’orizzonte concettuale verso un tutto mai definitivo, sempre pronto a dilatarsi ad infinitum. La performance genera le condizioni per il superamento di se stessa e della propria transitorietà, appoggiandosi alla fotografia, alla pittura, al video, e a ogni mezzo capace di trasformare il presente del gesto in fissità duratura, sfidando l’oblio e l’espulsione nel passato.

Fra tutti i media, è la fotografia ad essersi inserita con maggiore sistematicità e stabilità nel sistema delle arti e nel mercato correlato, raggiungendo vette di valore anche milionarie, come dimostrano le aste dedicate a Mapplethorpe, Bruce Weber, David LaChapelle. Tuttavia, la fotografia non può mai essere totalmente autoreferenziale: ha bisogno di un set, di attori, di una scena, di un “prima” imprescindibile, che ne giustifichi la materialità e la presenza — un autentico habeas corpus.

L’eresia del corpo proposta da Mauro Maurizio Palumbo si nutre di emozioni e passioni che appartengono alla sfera delle intuizioni intellettuali, assumendo la sensibilità come luogo riflessivo plurale, e la sensitività come strumento per penetrare la caoticità contemporanea, distinguendo tra l’esistente e l’inesistente. Una pratica che si muove tra immediatezza (come azzeramento spazio-temporale) e cripticità (come complicazione e dilatazione), partendo sempre dal grado di consapevolezza che ognuno ha di sé, come in un grande alveo romantico.

In questo alveo si dispiega una continua querelle tra il conscio — come azione deliberata, individuale, collettiva, morale e intellettuale — e l’inconscio, come deriva automatica, meccanica, impersonale, sensuale ed estetica, sospesa tra il bello e il sublime.

Una vera escursione nelle possibilità e probabilità della fisicità, in cui si impone un quid immaginario di forte valenza visionaria, anche quando le invenzioni — visive, musicali, oggettuali, gestuali — sembrano appartenere alla dimensione dell’ordinario e della quotidianità.

Pasquale Lettieri