di Letizia Bonelli
Siamo ancora capaci di difendere la dignità umana quando a decidere è un algoritmo?
Viviamo in un tempo in cui i giudizi non si leggono più nei tribunali, ma si calcolano nei data center. Un clic può decidere il destino di una persona, un algoritmo può distruggere una reputazione. Non c’è più bisogno di un boia in carne e ossa basta un filtro automatico, una notizia non aggiornata, un motore di ricerca che ti inchioda al passato.
Eppure, in tutto questo, c’è un paradosso che fa male chi crea e governa queste tecnologie non è obbligato ad avere cuore.
L’intelligenza artificiale non ha empatia.
Non conosce il perdono, non distingue un errore da una rinascita. Per lei, sei la somma di ciò che appare. E se un contenuto online dice che sei “colpevole”, per l’algoritmo lo sarai per sempre.
Ma l’essere umano non è un dato, è un mistero.
È carne, memoria, lotta. È capacità di cambiare, di cadere e rialzarsi.
Il diritto all’oblio nasce da qui dal riconoscimento sacro che una persona non coincide con il suo peggiore momento. Che ogni esistenza ha diritto a una seconda possibilità, a un nuovo inizio.
Come può allora un algoritmo, cieco e impersonale, arrogarsi il potere di stabilire chi meriti visibilità e chi debba restare impigliato in vecchie accuse o in una cronaca dimenticata da tutti tranne che da Google?
Il vero problema non è la macchina.
Il problema siamo noi.
Noi che deleghiamo ai codici informatici il potere di giudicare, di conservare o cancellare, di redimere o condannare.
Noi che accettiamo che la memoria digitale diventi più potente della memoria umana, più definitiva di un tribunale, più duratura di una biografia vissuta.
E allora la domanda è siamo ancora capaci di custodire l’essere umano oltre i suoi errori digitali?
Possediamo ancora un’etica che valga più di un algoritmo?
Non si tratta solo di diritto.
È una questione spirituale, ontologica, esistenziale.
Perché ogni volta che neghiamo a qualcuno il diritto all’oblio, stiamo dicendo che non crediamo più nella redenzione.
Che per noi, l’uomo è irrimediabilmente identico ai suoi sbagli. Che non esiste la grazia, né il tempo, né la libertà di riscriversi.
Ma io ci credo, ancora.
Credo nella possibilità di un nome che si ricostruisce, di una reputazione che risorge, di una luce che torna a brillare dopo essere stata sepolta nel fango.
Perché “ubi spiritus, ibi libertas”.
Dove c’è Spirito, lì c’è libertà. Anche nella rete. Anche tra i bit.
Il futuro ci chiede questo non di spegnere l’intelligenza artificiale, ma di accenderci noi. Di recuperare uno sguardo umano, giusto, misericordioso. Di scegliere di ricordare ciò che conta e dimenticare ciò che ferisce.
Perché non è vero che tutto deve restare per sempre.
A restare dev’essere solo ciò che salva.