SALUTE, LIBERTÀ E LOCKDOWN NEL QUADRO COSTITUZIONALE

La salute non è tutto, ma
senza salute tutto è niente
A. Schopenhauer

Riferimenti costituzionali

L’art. 32 Cost., inserito nel quadro del settore organico dei rapporti etico-sociali, stabilisce che, nella sua complessiva articolazione territoriale e istituzionale che comprende tutti noi, “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.
A sua volta, avuto riguardo alla evoluzione della civiltà, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) delle Nazioni Unite (ONU, ora non proprio in… salute), ha da tempo definito la salute come l’insieme delle condizioni soggettive e ambientali più idonee ad assicurare la “migliore qualità della vita sul piano psico-fisico”.
Considerato che, come ci ricorda il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (1788-1860), “senza la salute tutto è niente”, la nostra Costituzione affida alla Repubblica il compito (l’obbligo?) di garantire la salute a tutti gli individui, senza distinzione tra cittadini e stranieri.
Come si è detto, la Costituzione (art. 32) dichiara la salute diritto “fondamentale” nell’ambito dei rapporti etico-sociali.
Tutti gli altri diritti, inseriti nel quadro dei rapporti civili, sono invece
definiti semplicemente “inviolabili”; assistiti cioè dalle garanzie nonché dai “limiti” previsti dalla legge.
Questa distinzione induce taluno ad attribuire alla salute una teorica posizione apicale rispetto agli altri diritti soggettivi della persona, libertà compresa.
L’aggettivo “fondamentale” evoca infatti i “principi fondamentali” posti dagli artt. 1 – 12 Cost. come pilastri sui quali si regge la base dell’intera Repubblica.
Va però notato che la Corte costituzionale non trascura di ribadire che tutti i valori, elencati come diritti nel catalogo costituzionale, sono di pari importanza e vanno bilanciati tra loro con ponderatezza, sì che nel nostro ordinamento giuridico non trovano spazio i cosiddetti “diritti-tiranno”.

Il Dott. Benito Melchionna

Lo stesso art. 32 Cost. definisce inoltre la salute come “interesse
della collettività”. È infatti di tutta evidenza che dal benessere o, al
contrario, dalle infermità delle singole persone deriva un diretto
impatto economico, occupazionale e relazionale nel più vasto ambito
familiare e sociale.
Ancora l’art. 32 Cost. – in stretto rapporto logico e sistematico con
l’art. 2 Cost. – prescrive che qualsiasi intervento sanitario non può
“violare i limiti imposti dal rispetto della dignità umana”.
Ciò comporta il rafforzamento del principio della libera
autodeterminazione della persona, legittimata pertanto a disporre
anche del mistero che circonda la propria vita. Ovviamente nessuno
può invece vantare una qualche signoria che autorizzi a
compromettere la vita degli altri pur se solo per via di contagio
colposo.
Del resto, la libertà di autodeterminazione di ciascuno, che può
stabilire di “staccare la spina” in casi particolari (interruzione delle
cure, suicidio assistito, ecc.), è ormai riconosciuta anche dalla
giurisprudenza della Corte costituzionale, nel quadro
sufficientemente delineato dalla legge n. 219 del 2017 sulle
Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat).
Va poi richiamato l’art. 13 Cost. che, nel bilanciamento tra diritti e
doveri dei cittadini, dichiara “inviolabile” la libertà personale (sia
fisica che morale), e ammette la possibilità di restrizioni della stessa
libertà “nei soli casi e modi previsti dalla legge“.
La medesima riserva di legge viene inoltre sancita dall’art. 14 Cost.
che garantisce la “inviolabilità del domicilio”, libertà che peraltro il
mondo occidentale avanzato conosce da lungo tempo.
Data quindi per scontata la libertà di riunirsi nel domicilio privato,
occorre richiamare l’art. 17 Cost., per cui “i cittadini hanno diritto di
riunirsi pacificamente”, “anche in luogo aperto al pubblico”. Quanto
invece alle “riunioni in luogo pubblico”, le Autorità competenti
“possono vietarle solo per comprovati motivi di sicurezza o di
incolumità pubblica”.
Con particolare riferimento al lockdown, va poi menzionato l’art. 16
Cost., che ammette eventuali limitazioni della libertà di circolazione,
di soggiorno e di espatrio, solo se tali restrizioni vengono stabilite
dalla legge generale (e dalle conseguenti ordinanze amministrative di
attuazione) “per motivi di sanità o di sicurezza”.

A questo riguardo, va segnalato come corollario il connesso art. 120
Cost., il quale – in raccordo con l’art. 5 Cost. che dichiara la
Repubblica “una e indivisibile” – prescrive che “la Regione non può
adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera
circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni”.
Speciale menzione merita poi l’art. 34 Cost., che stabilisce che “la
scuola è aperta a tutti”, essendo fondamento della formazione dei
giovani ed essenziale per il pieno sviluppo con le identità individuali
in rapporto con il valore della cittadinanza.
Ciò impone la necessità di bilanciare, con legge, le eventuali
provvisorie “interruzioni” dell’attività didattica in presenza con
verificati effettivi rischi di estensione del “contagio”.
Risulta infine di grande importanza l’art 41 Cost. che – in raccordo
con il diritto/dovere al lavoro ex art. 4 Cost. – proclama “l’iniziativa
economica privata libera”. Il limite è che essa (nonché il giusto
profitto) non si svolga “in contrasto con l’utilità sociale e in modo da
recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Pertanto, al pari della salute e della libertà, neppure l’economia (dal
greco, “governo” della “casa”, sia individuale sia di tutti come
l’ambiente) può essere soffocata dalle sopra citate limitazioni. Le
quali si giustificano dunque solo allo scopo di superare momentanee
situazioni di emergenza, senza nel contempo compromettere la
produttività di sussistenza e lo scambio delle utilità (il mercato),
nonché i relativi spazi lavorativi, culturali e di relazione.
Ha forse ragione chi si chiede se sia meglio morire di virus o di fame?
Viene prima la salute o la libertà?
Le restrizioni-limitazioni consentite dalla Costituzione devono in ogni
caso essere preventivamente autorizzate da specifiche leggi dirette,
di volta in volta, a bilanciare tra loro la dignità-libertà dei singoli e
l’incolumità e la sicurezza pubblica. Avendo comunque presente che,
come non è possibile garantire la sicurezza assoluta, intesa anche
come salute piena, neppure è ipotizzabile la libertà assoluta,
compresa quella economica.
Infatti, la pretesa di assicurare ad ogni costo la sicurezza totale ci
condurrebbe dritti nelle mani dei regimi dispotici che impongono
un’etica salutista e securitaria, sbandierando un supposto interesse
pubblico.

A sua volta, la libertà senza limiti finirebbe con il negare se stessa perdendosi nel caos e nell’anarchia dell’egoismo, con la conseguente giustificazione finanche della violenza e delle più irragionevoli rivoluzioni.
Perciò forse solo i poeti hanno il privilegio di mitizzare la libertà, quale quella ad es. sognata dai cowboys sotto il cielo stellato del FarWest.
Chi invece analizza il principio del libero arbitrio, già studiato da Tommaso d’Aquino (1225 – 1274), sa che la libertà è quasi sempre “pesante” in quanto condizionata da molti fattori, a cominciare dai diversi contesti ambientali e dalle esigenze dell’ordine sociale.
A proposito poi dei ricorrenti ribaltoni in nome della libertà, è forse utile ricordare che l’ “incorruttibile” Robespierre (1758 – 1794), prima di perdere a sua volta la testa sotto la ghigliottina, ebbe a teorizzare il primato della “salute pubblica”, imposto con il regime del Terrore e movimentato dalla legge del sospetto. Egli affermava infatti che la forza rigeneratrice della Rivoluzione “è illegale come la libertà stessa”, dato che per sua natura la forza prorompente della rivoluzione mira proprio a rompere – senza tanti rimorsi – il quadro della legalità precedente.
Chi scrive ebbe modo di riscontrare il cinismo della eversione e la connessa assenza del senso di colpa quando – nelle funzioni di giudice istruttore al Tribunale di Bergamo negli anni di piombo (1970/1980) – interrogò in carcere i terroristi nostrani (Brigate rosse, Prima linea, …) in merito alle loro “imprese” sanguinarie.
Che dire poi dei massacri dei terrorismi che qua e là ancora insanguinano i nostri giorni, appunto per affermare il primato della libertà-verità ideologica a senso unico, tipica di ogni integralismo?
I richiami storici e i riferimenti costituzionali non dovrebbero qui apparire accademici o superflui. Anzi, essi servono a raccontarci l’eterno confronto tra libertà individuale e rivendicazione della salute e della sicurezza pubblica. Si tratta infatti di valori messi a confronto tra loro, spesso in modo strumentale dalla politica, quando invece dovrebbero integrarsi tra loro. Proprio perché libertà e sicurezza sono in fondo la stessa cosa, cioè esigenze fondamentali, imprescindibili e complementari.
Questo dibattito si è perciò puntualmente riproposto, in termini assai critici e problematici, sin dai primi mesi dell’anno 2020, con l’insorgenza e la rapida diffusione della pandemia (dal greco, epidemia estesa a tutti i continenti) da Covid-19.

In realtà, nell’era della complessità e della vulnerabilità globale appare molto più difficile trovare il giusto equilibrio tra la necessità di eliminare il contagio – tutelando il diritto alla salute – e l’esigenza di assicurare alle restrizioni della libertà il minore impatto possibile sulla qualità di vita delle persone.
Così come risulta sempre più ardua la ricerca della “amicizia sociale” di cui segnatamente si occupa la Lettera Enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco.
Lockdown e diluvio normativo
Sta di fatto che, in nome della difesa della collettività, gli stessi Paesi democratici si ritengono, di volta in volta, legittimati a imporre misure restrittive e/o limitative della libertà personale, spesso al limite della compatibilità con i consolidati valori costituzionali.
Le persistenti condizioni di emergenza sanitaria vengono quindi evocate per far luogo a un delirio normativo, tra l’altro di confusa e discussa valenza giuridica.
Si susseguono dunque DPCM (decreti Presidente consiglio dei ministri), decreti-legge, ordinanze ministeriali, regionali e comunali, protocolli aziendali, linee guida “Arlecchino” ovvero a macchia di leopardo, provvedimenti autonomi delle autorità sanitarie, scolastiche, ecc. .
Tali misure, tra cui in primis l’obbligo di quarantena con isolamento
(segregazione?) domiciliare obbligatorio o fiduciario risultano in
realtà poco coordinate tra loro. Si pensi poi a: prelievi e analisi di tamponi e successivi controlli nei casi sospetti, coprifuoco serale (da guerra?), isolamento selettivo generazionale con gli anziani a casa, distanziamento interpersonale con divieto di assembramenti, ecc. .
Queste imposizioni, licenziate a getto continuo e in ordine sparso, ivi compreso il lockdown che ha bloccato e costretto tutti in casa, sono certamente finalizzate a contenere la diffusione del contagio.
Tuttavia, la loro indeterminatezza causa una gigantesca confusione tra i cittadini, alimentando il timore del blocco delle attività produttive e dei servizi essenziali.
In tale contesto si impongono la pandemia da panico e quella da infodemia (malattia da informazione apocalittica). Da queste forme di psicopatologia scaturiscono poi devastanti stati depressivi, tanto più che già Epicuro (341 – 270 a.C.) affermava che “muore ogni giorno chi ha paura di morire”.

Oltre che sul piano psicologico, si registrano altresì gravi ripercussioni sull’intero sistema socioeconomico, con il conseguente accentuarsi della paura della malattia e di nuove povertà.
Nel contempo si propaga tra la gente la sottocultura del rancore sociale e del sospetto, che tanto richiamano alla memoria gli “untori” della peste manzoniana.
Pertanto, la recrudescenza della pandemia ha portato a galla tutte le contraddizioni del nostro scriteriato modello di sviluppo e ha rinfocolato il conflitto tra le diverse forze politiche e tra Governo centrale e comunità locali in merito alla competenza nell’imporre nuovi “pacchetti” di misure restrittive.
Tale contrasto è in gran parte conseguenza della pasticciata revisione costituzionale che, nel 2001, ebbe a ridisegnare il quadro generale delle competenze normative, tra l’altro inventando la “legislazione concorrente” tra Stato e Regioni.
In questo ambito, dove “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” (art. 117 Cost.), è espressamente inserita la materia relativa alla “tutela della salute”.
Si susseguono dunque complicati DPCM e ordinanze regionali e comunali in contraddizione tra loro e di difficile interpretazione, anche con riguardo alla gerarchia delle rispettive fonti giuridiche. In ogni caso, la contrastata scelta di procedere per gradi attraverso la “chiusura” dei focolai riscontrati nei diversi distretti territoriali, sono frutto di troppi compromessi per poter risultare efficaci.
Per questo, le dure restrizioni alla mobilità, alla circolazione delle persone e alla continuità della produzione e del commercio, in un dialogo non sempre proficuo tra scienza e politica, sono da più parti giudicate “illiberali”.
Dunque poco sostenibili nel quadro della democrazia liberale, che pone al centro la persona e le relazioni umane nella condivisione dei valori e delle regole proprie del civismo responsabile.
Tanto più che le misure imposte sono quasi sempre assistite da pensanti sanzioni amministrative (pecuniarie) o addirittura di rilevanza penale, come nei casi di ritenuta inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità (art. 650 c.p.) e di diffusione di epidemia colposa (art. 452 c.p.).
Comunque il nostro Paese, almeno nella prima fase acuta dell’emergenza, ha “risposto” in modo soddisfacente.

Successivamente, l’illusione di aver debellato il virus e il conseguente
“liberi tutti!” hanno favorito la ripresa acuta del contagio.
La nuova emergenza ha purtroppo trovato ancora una volta impreparato e poco attrezzato il nostro intero sistema sanitario, sia sul piano della prevenzione affidata alla medicina del territorio, sia sotto il profilo della cura di competenza ospedaliera.
Le incertezze, i timori e le lacune sopra descritti hanno così favorito, sin dall’autunno del 2020, diverse manifestazioni di piazza (al grido “libertà!”, “libertà!”) da parte delle categorie maggiormente compromesse dalle nuove restrizioni.
In alcune città è stato finanche messo a dura prova la tenuta dell’ordine pubblico, soprattutto a causa della strumentale violenta infiltrazione di frange di malavitosi e di estremisti.
Forse non possiamo paragonarci ad es. al Giappone. Le cui Autorità si
sono limitate con successo a “consigliare” ai cittadini, per costume e
cultura ordinati e obbedienti, la necessità di limitare il contagio, senza
dover ricorrere a insostenibili e pasticciati lockdown.

Dott. Benito Melchionna
Procuratore emerito della Repubblica