Don Enzo Bugea Nobile

Ci sono uomini che non gridano, ma lasciano che a parlare sia la loro coscienza.
Rosario Livatino è stato uno di questi, un giudice mite e inflessibile, fragile e saldo come la verità che serviva. La sua toga non era un simbolo di potere, ma un atto d’amore, un manto di giustizia che odorava di Vangelo. Egli non giudicava per condannare, ma per guarire. Perché nella sua visione, la legge non era solo codice, ma cammino verso il Regno.
Nella sua vita discreta, Rosario fu un’anima trasparente, un uomo che non cercava gloria, ma limpidezza. È il mistero dei santi nascosti, coloro che non appaiono, ma incidono. “Sub tutela Dei”, scriveva sul suo diario, come a dire: “Io non mi appartengo, sono custodito”,
e davvero lo era. Custodito da una fede sobria, da una preghiera quotidiana, da un amore quasi timido per la giustizia vera, quella che non si vende, non si piega, non si adatta.
Il martirio di Rosario non fu improvviso, fu preparato dal suo stesso stile di vita.
Ogni giorno egli moriva un po’ al compromesso, alla paura, alla tentazione di chiudere gli occhi. Così il suo sacrificio, quando arrivò, non fu tragedia ma compimento, la consummatio amoris, il sigillo di una fedeltà.


Morì giovane, ma non acerbo, perché la maturità non è negli anni, ma nella verità che si porta dentro.
Livatino ricordava che la giustizia senza carità diventa vendetta e che la fede senza responsabilità è un alibi. In questo equilibrio tra diritto e misericordia egli ha incarnato il volto nuovo del credente nel mondo, un cristiano che non si ritira nel sacro, ma porta il sacro dentro la storia.
Nel suo ufficio, dietro i fascicoli, stava il Crocifisso, non come ornamento, ma come criterio.
Ogni decisione nasceva alla sua ombra, come se ogni imputato fosse un’anima da salvare, non un numero da chiudere in cella.
È qui la sua grandezza, giudicare senza mai dimenticare che il giudice è prima di tutto un uomo.
Nell’epoca della corruzione e della paura, Rosario è un grido silenzioso che ci ricorda che la fede non è un’idea, ma un’azione. È coraggio che non ha bisogno di clamore, ma di coerenza. Fides et Iustitia, fede e giustizia, erano il suo doppio respiro.
E mentre molti cercavano di salvarsi la vita, lui ha scelto di donarla.
È questa la logica di Cristo; chi perde la vita per amore, la ritrova in pienezza.
Rosario Livatino non è morto è stato assunto nel mistero della luce, dove la verità non è più minacciata e la giustizia è finalmente amore.
Oggi, noi che ci dibattiamo tra norme e coscienze, tra poteri e debolezze, abbiamo bisogno di giudici come lui, ma soprattutto di uomini come lui, capaci di credere che anche il lavoro quotidiano può essere preghiera, e che il diritto, se è puro, conduce a Dio.
Perché come scriveva Sant’Agostino “Remota iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia?”
(“Senza giustizia, che cosa sono i regni, se non grandi bande di ladri?”).
E Rosario, il “giudice ragazzino”, ci ha insegnato che la vera giustizia è quella che passa per il cuore, che sa farsi misericordia senza perdere fermezza, e che si inginocchia solo davanti a Dio, non davanti al potere.
Il suo esempio rimane un Vangelo laico e un trattato di fede.
Non serve ricordarlo con statue, ma imitarlo nel silenzio.
Servire la verità, amare la legge come servizio, credere che la vita, se offerta, non finisce mai.
E allora sì, il Beato Rosario Livatino continuerà a vivere in ogni gesto giusto, in ogni scelta limpida, in ogni giudice, avvocato, giornalista, cittadino che osa dire:
“Io sono sotto la tutela di Dio.”
Sub tutela Dei, lux in tenebris lucet
(Sotto la tutela di Dio, la luce splende nelle tenebre.)
Don Enzo Bugea Nobile