Il Canto popolare nei versi di Epifanio e Salvatore Rugolo, Davide De Rito e Giusy Staropoli.

Il canto popolare è per definizione un genere di arte musicale e poetica insieme. Scriveva Vincenzo Severini nella sua Raccolta comparata di Canti popolari di Morano Calabro, del 1895, (Prefazione, pagina XVII) – che tutte le volte che mi colpisce l’orecchio uno di questi motivi popolari, non posso non provare quel rapimento, quella gioia malinconica che entusiasma o sconforta, che ci rende buoni, che ci ridona l’amore e la fede”:

Il canto popolare è stato, per secoli, uno dei pochi mezzi a disposizione della gente semplice per esprimersi e comunicare; per cui da quei componimenti, che a prima vista possono apparire semplicistici e scontati, è possibile trarre la storia di un popolo.

“In Calabria, ogni città è una nazione, diceva De Custine. I popoli della costa, non somigliano a quelli dell’interno…tanto sorprendente è la diversità …dei costumi e dei dialetti”. Questa dimensione culturale, che già annotavano i viaggiatori del gran tour,  è quella che ancora oggi sottolinea  chi, in modo euristico,  si occupa di paremiologia,  e che Matteo Bartoli indicava quale osservazione “linguistica spaziale”.

Ormai i dialetti sono diventati patrimonio culturale, grammatiche e letterature dialettali, dizionari dialettali regionali e territoriali (Accattatis, Galasso, Rohlfs) e non ultimo quello del Poro dello studioso nicoterese  Placido Carè, sono in questo senso dei veri e propri scrigni della parola in vernacolo, proiezione di comunicazione: meteorologica, medica, giuridica, economica. Al punto che, oggi, a Dasà (nella provincia di Vibo Valentia) è sorto il Museo del Dialetto, che recupera radici linguistiche dal VI al XVIII secolo a.C,  a sottolineare tratti distintivi di un idioma, quello vibonese, carico di grecismi, latinismi, arabismi, spagnolismi, francesismi:  dal latino margo; scifu dal greco skùfus; capiju  dal greco kapirus; cantaru dall’arabo càntaru; ninnu dallo spagnolo niň e così fino a ricostruire parlata dopo parlata.

Il dialetto, quindi, inteso quale portatore di culture diviene, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, uno dei punti di osservazione da parte degli antropologi, fino a rientrare nelle aree disciplinari della linguistica, della socio linguistica e dell’etnolinguistica.

Un agire culturale che già verso la fine degli anni Sessanta il Prof. Mario Pei aveva promosso presso l’Università di Pittsburgh, con la prima conferenza dal titolo “The Italian language and dialects”. Echi di antiche civiltà che passano attraverso una Calabria crocevia della grande storia dei popoli, le cui tracce sono ancora palpabili, vivibili, nei sapori, nei riti, nelle corportamentalità. Influenze lunari, formule scaramantiche, linguaggi della montagna e del mare, della cucina, ci proiettano nel pensiero del filosofo Albert Camus, il quale sottolinea che  la maniera più appropriata di fare conoscenza di un paese è quello di cercare nell’articolarsi del suo territorio come si lavora, come si mangia, come si ama, come si parla, come si muore. A questo punto, però, viene spontaneo domandarsi che senso ha oggi parlare della lingua dialettale delle nostre terre, cantare, fare teatro e la risposta, credo, sia legata alla inviolabilità dell’idioma dei padri, che ne esalta il valore spirituale del linguaggio autoctono, in virtù del quale bisogna rinverdire sempre la nostra memoria supremo tempio dell’identità della civiltà contadina che caratterizza tutto il vibonese.

Pino Cinquegrana
Antropologo