Elio Cassarà, solista di prima grandezza, fuori da ogni coro, anche se leggibile nell’ambito di una galassia di informalità, astrazione, gestualismo, matericità, che viene da una comune cultura euroamericana dell’emozionalità, spinta fino alla esasperazione, in sconfinamenti d’automatismo e di psicologismo sofferente o esaltato. In questo senso, mi sembra, che si possa dire di questo artista, quello che si dice di Vedova, di Corpora, di Basaldella, di Scialoja e di tutti quelli che hanno, con le loro opere, contribuito a modificare l’immaginario pittorico, inventivo, creativo e cioè che si tratta di una figura capace di trasformare, in visibile l’invisibile, dando la vita a qualche cosa che prima non c’era, che magari poi è facile ripetere, ma una cosa è la ripetizione e ben altra cosa è l’invenzione di un evento visibile, sconosciuto, imprevedibile.
Cassarà, è questa inedita invenzione del sé, che solo gli individui geniali riescono a concepire, additando con semplicità un itinerario che a nessuno era venuto in mente, che non sembrava possibile, che non sembrava necessario, ma che dopo di lui e prima ancora di lui, è. Mi chiedo e chiedo ai distruttori dell’informale, se possono concepire lo spazio mentale e quello reale, senza le larghe stesure di questa metodica interpretazione dell’eresia, come questa raffinata evanescenza di Cassarà, che non è mai stato artista da colpi di scena e teatralità, portando avanti i suoi giochi semplici, ma non per questo facili, con partecipazione emotiva, con coinvolgimento intellettivo sfidando la sua “reticenza”, che non è svelata dalla pittura, quando ne legge lo svolgimento artistico, come quello di una ricca originalità, di una totale forza concettuale, trasfusa pienamente nella molteplicità raggiante delle sue opere.
Già, perché in Cassarà c’è sempre una massimalità pittorica, capace di aggiungere le valenze più sfuggenti della sensibilità visiva, passata sotto il setaccio della tattilità e di una visceralità che solo alcuni riescono ad utilizzare, facendo divenire ogni opera, una speciale macchina passionale, un organismo fatto di cellule vive e vivaci, che vengono dalla mimesi del mondo e si esaltano nella corporalità fantastica, guadagnando, ogni volta, un granello di novità, avanzando così nei territori dell’ignoto. La prevalenza pragmatica della sua poetica, discendente dall’esperienza astratta americana ed europea, lo porta ad un impatto problematico con la storia romana di classicismo, barocchismo, naturalismo, aggiungendo alla larghezza delle sue stesure, alla debordante secchezza dei suoi segni, una memoria antica, radicale, che fonde anche la gamma cromatica, in una poetica che è sua e basta.
Pasquale Lettieri