di Pino Cinquegrana
I paesi di Calabria di fine Ottocento ed inizio Novecento sono ancora con poche strade, inesistenza di reti fognarie e scarsa illuminazione. Le immondizie rimangono sulla pubblica strada fin quando la buona volontà degli abitanti le rimuova in occasione di processioni e di feste. Le case di contadini e piccoli artigiani, per lo più mono e bilocali, sono prive di comodità di spazi diversi dove cucinare, mangiare, dormire e deporre il peso della natura. A sera, per cucinare ervi stranghiati (erbe di campo soffritte con mollica, aglio, olio d’oliva e peperoncino); si cucinava davanti all’uscio nella tiana (vaso per terracotta usato per cucinare sul tripode) e, alla tarda, si svuotavano per strada i rinali. Le terre, quasi tutte appartengono a baroni e marchesi, che danno in fitto a quanti devono nella sventura devono guardarsi dal brigantaggio di campagna e dall’abigeato. I signori ci tengono sotto i piedi… ci trattano come besti… loro si preoccupano di mangiare bene e dormire… non ci vengono neppure vicini e il solo modo di andare vicino a loro è di portare qualcosa allora sono tutti sorrisi e accoglienza. Per non fare fuggire tanta manovalanza a basso prezzo, la legge del 25 maggio 1876 chiudeva ogni speranza ai contadini di potere emigrare, fuggire da un padrone chi no si gurda mai (mai è contento del lavoro fatto): gurada patruni chi trovammi st’annu /voli fatiga assai e pocu guversu[guarda che padrone abbiamo trovato quest’anno/vuole molto lavoro ma a basso prezzo].
L’emigrazione, di cui poco interessa alla politica nazionale di questo periodo, fu l’unica possibilità di fuga a tanta miseria: l’unica forma di ribellione alla violenza e al sopruso fisico, ai rapporti di soggezione personale, umiliante e gravosa, che le masse rurali vivono nei confronti del proprietario. Chi clandestinamente era riuscito ad attraversare l’Oceano, faceva giungere al paese notizie di un altrove che dava in cambio ottimi salari e si potevano risparmiare, in un anno, persino mille lire. Accumulato il denaro per il viaggio l’emigrato partiva e quando tornava al paese comprava la terra e la casa, faceva la dote alle figlie per sposarle in modo conveniente. Essere figli di un mericano era percezione di benessere, buon partito da condividere.
Padri e figli fuggono in America.
A partire dal 1870 e fino al 1913, una marea di meridionali lasceranno le terre alle donne e ai ragazzi e partiranno verso le Americhe dove divengono i navy (operai) nelle mani dei nuovi sfruttatori che approfitteranno della loro condizione di greenhorn immigrant (spaesamento). Qualcuno non ritornerà più al paese ed altri saranno completamente dimenticati. L’emigrazione transoceanica aveva due direzioni: l’America del Nord e l’America del Sud. Nell’America del Nord gli italiani erano trattati come cani, al gradino più basso c’erano i negri. Moltissime furono le vedove bianche …
L’America del Sud era detta l’America d’u scuordu, ossia della dimenticanza, ma nonostante tutto il sogno di andare un giorno in America rimaneva nei desideri di tantissimi giovani. Il viaggio verso le Americhe fu l’unica condizione di cambiamento per la gente del Sud Italia. Una scelta fra due mali: emigrare o restare. Nel rimanere la prospettiva sarebbe stata “la miseria continuata, stenti e fatiche; emigrando vi sarebbe qualche speranza seppure al prezzo di duri sacrifici”.
Nella rada di Buenos Aires, (nel 1885),nel porto di Rachuelo, approdarono 485 vapori, di questi 79 erano italiani, 838 furono i velieri, 15 di essi giunsero da porti italiani. I passage brokers (spacciatori di carne umana) mettono insieme un buon numero di capi e, fatta la consegna, ricevuto il prezzo, poco importa del destino di quanti hanno reso tristi e deserti i propri paesi che, in cuor loro, come a dire l’On. Berio “partono nella speranza di recarsi a star bene, ma nella completa ignoranza di tutto quanto dovrà loro avvenire”. La partenza dalla ruga, implicava non solo il dispiacere della famiglia dell’emigrato, ma dell’intera via, che viveva questo momento come lo sradicamento di un membro del clan, che non sa se potrà più riappropriarsi delle cose e degli affetti a lui cari: chi partenza, chi partenza amara/chi cianginu li petri di lì mura/la navi nta lu portu si prepara/m’aspetta ammia ura pe’ ura./Io vaju e ti saluto strata/ cu sa si ndi vidimu natra vota. Si raccomanda agli emigranti, non appena giunti a Ellis Island di chiedere degli agenti della società per la protezione degli emigranti italiani; che le donne e i bambini non accompagnati si rivolgano per assistenza a padre Gambera, agente della Società San Raffaele. In questo periodo, grande valenza ha avuto la figura di Mons. Giovanni Battista Scalabrini – l’apostolo degli emigrati – Vescovo di Piacenza determinante nella guida morale, spirituale, economica e sociale degli emigranti; autore del famoso scritto indirizzato all’On. Paolo Carcamo al fine di strutturare il disegno di legge sull’emigrazione. Nonostante tutto non mancarono sfruttamenti i finiti in mano ad agenti che li sfruttarono nelle fabbriche, come lustrascarpe (shoe shine), tanto che, nel 1901, lo sfruttamento minorile in America divenne uno scandalo pubblico.
Tanti sventurati andarono a finire nelle ferrovie, miniere, fabbriche del ferro, dell’acciaio, raffineria petrolifere. In un primo momento, questa marea di persone dormirà negli shanties (carri ferroviari non più in uso) e, poi, nei villaggi-fabbrica costruiti appositamente per questa manodopera a basso costo. Nel 1904, l’America Land Improvement and Silk Culture faceva sentire l’italianità ed in particolare una affermata meridionalità. La coltura del baco da seta, per opera degli emigrati, negli Stati Uniti fu una realtà che fornì a molta gente di Calabria, nelle zone del New Jersey, a diventare persino boss. La tratta dei bianchi, fatta affluire nel XIX secolo nelle Americhe, fece comprendere quello che gli americani definirono il Manifest Destiny (il palese destino) che senza quelle braccia giunte dall’Europa meridionale sarebbe stato impossibile. I paesi calabresi si spopolano e, quel 90% della popolazione giornaliera e analfabeta scappa verso le Americhe, miraggio di sazietà. Oltreoceano i contadini diventano operai specializzati, manovali nella grande costruzione, capi cantieri: 15 milioni di emigrati provenienti dai paesi del Mezzogiorno si riversano nella terra promessa e grandi città come New York, Chicago, Pittsburgh, Cleveland, Detroit si svilupparono senza limite. Insomma, se l’America pronunciava gli emendamenti XIII, XIV e XV riguardanti l’abolizione della schiavitù e il riconoscimento dei negri quali cittadini degli States, veniva aperto alle macchine il Ponte di Brooklyn (24 maggio 1883), la Calabria diveniva sempre più una terra in fuga verso Ellis Island, tempo sospeso prima di diventare calabrese d’America. Scrive Corrado Alvaro: non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno quando i torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati ad una mantella triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale…Né le pecore né i buoi né i porci neri appartengono al pastore. Sono del signore. Dall’altro lato questa miserevole condizione di vita, scrive Vincenzo Padula (1973:610): fino a otto anni il fanciullo calabrese va dietro l’asino, alla pecora e alla troia; a nove il padre gli pone in mano la zappa e la pala, in spalla la corba lo conduce seco al lavoro e lo mette in condizioni di guadagnarsi42 centesimi al giorno. A 15 il suo salario cresce e ne ha 67; a 20 non tratta più la zappettina, ma la grossa zappa, e con rompersi l’arco della schiena da mano a sera a 85 centesimi e la minestra, o 125 senza minestra. Parafrasando Saverio Strati, diciamo che il figlio del contadino eredita la zappa come il principe la cora. Contro le ingiustizie sociali, le false promesse dei governi, al povero contadine non rimane altro che fuggire, emigrare nelle Americhe. Una fuga silenziosa che con rammarico Giovanni Pascoli, durante un suo discorso ai giovani studenti dell’Università di Messina, nel 1906, parla di “vergogna”, “dolore” e “rimorso” per una nazione incapace di intervenire a favore di quanti si gettano quotidianamente nelle braccia di chi ha un premio di tanto a capo di bestiame. E queste mandrie di uomini vanno ad imbarcarsi cantando e ridendo sgangheratamente perché non hanno denaro per ubriacarsi di vino e si ubriacano di canto e di riso. Così, nel 1874, il giornale calabrese “Il Pungolo” descriveva la partenza di migliaia di sventurati che dai porti di Pizzo Calabro, Napoli e Genova prima, e quello di Messina poi, si imbarcavano verso un altrove della speranza. Uomini e donne portano le loro braccia al servizio di altre nazioni come dirà Mastro Bruno di la Serra a cercare allo straniero lavuru e pani. D’altronde, sottolinea Fortunato Seminara la povera gente ha sempre emigrato per il pane. Giunto a destinazione, l’emigrato è preso da un ripensare alla propria terra che il De Amicis così descrive questo momento: quando misi piede a terra, mi voltai a guardare una volta il Galileo, e il cuore mi batté nel dirgli addio, come se fosse un lembo natante del mio paese che mi avesse portato fin là. Esso non era più che un tratto nero sull’orizzonte del fiume smisurato, la si vedeva la bandiera che sventolava sotto il primo raggio di sole d’America, come ultimo saluto dell’Italia che raccomandasse alla nuova madre i suoi figli raminghi.