Riflessioni di un ingegnere, di un padre, di un uomo
Nel lavoro di un ingegnere civile e della sicurezza il limite umano è una presenza costante. Il limite della materia, del tempo, dell’errore. Ogni progetto nasce dalla consapevolezza che nulla è eterno e che proprio per questo tutto deve essere pensato con cura, responsabilità e rispetto. Costruire significa assumersi una responsabilità verso il futuro, anche quando non lo si abiterà più.
Questa consapevolezza, già centrale nella mia vita professionale, ha assunto un significato nuovo e più profondo con la nascita di mio figlio Ciro, venuto alla luce alle 01:40 del 23 dicembre 2025. Diventare padre è un atto di fiducia radicale nel futuro, non così diverso da quello che compiamo ogni volta che realizziamo un’opera destinata a durare oltre la nostra presenza.
In ingegneria si studia il terreno prima di costruire, perché ciò che non è visibile sostiene tutto ciò che lo è. Allo stesso modo, una vita cresce sulle fondamenta invisibili dei valori, dell’esempio, dell’amore ricevuto. Senza queste basi, nessuna struttura – umana o materiale – può davvero reggere nel tempo.
La sicurezza, spesso percepita come un insieme di regole e prescrizioni, è in realtà una forma di cura. È attenzione verso l’altro, riconoscimento della fragilità dell’uomo. In questo senso, la sicurezza non è solo tecnica: è etica e, per chi crede, profondamente cristiana. La mia fede mi ha sempre ricordato che l’uomo non è padrone della vita, ma custode di ciò che gli viene affidato. La paternità rende questa verità improvvisamente concreta, quotidiana, non più astratta.
Come ricorda spesso il mio padre spirituale da una vita – oggi anche collega di scuola, a dimostrazione di quanto la vita sappia sorprendere – Don Roberto Tortora, citando il Salmo 127: «Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori». Parole che oggi risuonano con una forza nuova. Nessuna competenza tecnica, nessun calcolo strutturale, nessuna pianificazione potrà mai sostituirsi a quel fondamento più alto che dà senso e misura a tutto.
Ciro non è qualcosa che mi appartiene, ma qualcuno che mi è stato donato. E come ogni dono va accolto con gratitudine e accompagnato con umiltà. Anche la filosofia insegna che il senso dell’agire umano risiede nella responsabilità e nella ricerca del bene; oggi comprendo quanto questa ricerca passi soprattutto dall’esempio silenzioso, più che dalle parole.
Nel mio lavoro so che non esiste sicurezza assoluta. Esiste però il dovere morale di ridurre il rischio, di prevedere l’imprevisto, di agire con coscienza. Allo stesso modo, nella vita di un figlio non potrò eliminare ogni pericolo, ma potrò insegnargli il valore delle regole, il rispetto per sé e per gli altri, la consapevolezza delle conseguenze delle proprie scelte.
Ogni firma che appongo su un progetto è un’assunzione di responsabilità verso la collettività. Ogni gesto da padre è una firma ancora più profonda, perché incide su una vita che si sta formando.
In questo percorso torna alla mente anche una frase semplice, ma carica di verità, entrata nell’immaginario di intere generazioni: «È il ciclo della vita», come racconta Il Re Leone. Un ciclo fatto di nascita, crescita, responsabilità e passaggio di testimone, in cui ciascuno è chiamato a fare la propria parte con rispetto e consapevolezza.
La nascita di Ciro mi ha ricordato che le opere più importanti non sono quelle che resistono ai carichi, ma quelle che resistono al tempo perché fondate su valori autentici. Sono le fondamenta invisibili – dell’amore, della responsabilità, della fede, dell’esempio – a sostenere davvero tutto il resto.





















