di Pino Cinquegrana
L’opera Persefone, realizzata nel 1874 dal celebre pittore preraffaellita Dante Gabriel Rossetti e oggi conservata alla Tate Britain di Londra, affonda le sue radici nel mito greco della fanciulla rapita da Ade.
Si tratta di uno dei racconti più celebri della mitologia ellenica: Persefone – detta anche Kore o “la Bella” – si trovava in un prato a raccogliere fiori insieme alle ninfe, quando fu attirata da un narciso meraviglioso, creato da Gaia su richiesta di Zeus e Ade. Chinatasi per coglierlo, la terra si aprì all’improvviso ed emerse il dio degli Inferi, che la afferrò e la portò con sé nel regno dei morti per farne la sua sposa.
Un racconto mitico che trova un curioso parallelo nella leggenda popolare di Maierato, “A figghia d’a Draga”.
Demetra, madre di Persefone e dea della fertilità e dell’abbondanza, sconvolta dalla scomparsa della figlia, iniziò a cercarla ovunque. Ma nel farlo trascurò la terra: i raccolti si seccarono, la carestia si diffuse e gli uomini smisero di offrire sacrifici agli dei. Gli dèi dell’Olimpo, come un parlamento umanoide riunito d’urgenza, si rivolsero a Zeus – una sorta di “presidente del Consiglio” mitologico – affinché risolvesse la crisi.
Fu trovato un compromesso: Zeus ordinò ad Ade di restituire Persefone. Tuttavia, la giovane aveva mangiato sei chicchi di melograno negli Inferi, e questo gesto, secondo le leggi divine, la legava per sempre al regno dei morti. Un’altra leggenda locale, stavolta ipponiata (e d’altronde siamo a soli dieci chilometri di distanza), narra che chi mangia un melograno senza farne cadere nemmeno un chicco riceverà in cambio tante monete d’oro e vivrà per sempre in una primavera di prosperità.
Persefone non poteva più tornare completamente nel mondo dei vivi. Fu così stabilito che avrebbe trascorso metà dell’anno negli Inferi con Ade (autunno e inverno) e l’altra metà sulla terra con sua madre (primavera e estate). Da qui, l’alternarsi delle stagioni.
Questo mito affascinò profondamente Rossetti, tanto da spingerlo a realizzare ben otto versioni del dipinto tra il 1872 e il 1882. In ciascuna, l’artista trasformò gradualmente il volto di Persefone affinché assomigliasse sempre di più a sua moglie defunta, Elizabeth Siddal.
L’opera riflette il tormento interiore di Rossetti, il suo conflitto tra memoria e desiderio, tra lutto e passione. Ossessionato dalla figura di Jane Morris – splendida modella e moglie dell’amico William Morris – Rossetti ne fa il volto iconico di Persefone, la regina dell’Oltretomba.
Il dipinto agisce su più livelli: da un lato è una narrazione mitologica sul ciclo delle stagioni e sul confine tra vita e morte; dall’altro è una confessione intima e autobiografica, un ritratto simbolico di una donna sospesa tra amore e prigionia, bellezza e tragedia.
Tra gli elementi simbolici emergono il melograno morsicato – emblema della scelta fatale e del vincolo con l’aldilà – e l’edera, pianta che evoca la memoria che si aggrappa e avvince. Infine, il sapiente gioco di luci e ombre nel dipinto suggerisce un’ultima allusione: la speranza e la possibilità di rinascita.