Marì Strutture dal profondo e visioni oniriche

La pittura di Antonella Gensale in arte Marì è fatta di segnali che giungono dall’Universo, emozioni e passioni, che appartengono sempre alla sfera delle intuizioni intellettuali ed assumono la sensibilità, come luogo di riflessione a più facce e la sensitività, come strumento di penetrazione nella caoticità, come luogo della differenza, tra l’inesistente e l’esistente, con una dote di  mediatezza, che va dall’immediatezza, come azzeramento spazio temporale, alla cripticità, come complicazione e dilatazione, partendo sempre dal grado di consapevolezza che ognuno di noi ha di se stesso, come in un grande alveo romantico, in cui si dispone una continua querelle, tra conscio, come agire decisionale, deliberato, individuale e collettivo, morale e intellettuale e inconscio, come deriva automatica, meccanica, che è di tutti, di nessuno, del singolo, sensualizzante ed estetizzante, sull’orlo del bello e del sublime.

In questo contesto, in cui si fa strada la pittura di Marì, in tanti modi diversi, con tanti pensieri trasversali, incroci e divieti, ora chiari e limpidi, ora oscuri e opachi, che determinano il determinabile, sempre più disciplinare circoscritto e fanno tracimare l’indeterminabile, sempre più impressionistico e informale, in una fenomenica della trasfigurazione, la cui grande forza evocativa è fatta di implicite allusioni e di esasperate espressioni. Tutta una escursione di possibilità e di probabilità, imponendo un quid immaginario, con una forte valenza visionaria, anche quando Marì tratta invenzioni visive, oggettuali, gestuali, che sembrano figlie dell’ordinaria amministrazione e della quotidianità. La “verità” è che la sua arte, tratta dell’attraente mondo che sta, nell’intermedio, nello scomposto, nel sottilmente illuminato, da una luce tagliente, senza di cui c’è la discesa nella follia, in cui l’improbabile si trasforma in probabile ed entrambi scivolano nell’impossibile, trascolorando nel nulla.

Per cui la luce si conferma un soggetto onnipotente, sia come mito che come leggenda (mimesi della metafora e della realtà) per accompagnare tutte le singolarità elettive, del genio creativo, finendo per diventare, essa stessa, la tramatura dell’inaspettato, delle metamorfosi, avendo memoria, delle tante accentuazioni che tutto il sistema delle arti (intendo quello facturale, non quello comunicativo commerciale che ad esso sono legati, ma in una dialettica dei distinti) che si pone troppo vicino o troppo lontano, per cui vede e fa vedere cose che altrimenti, in natura (ma non esiste la natura in quanto tale, quello che appare, che viene percepito, non è altro che una delle forme della cultura) sembrerebbe un assurdo susseguirsi di sgrammaticature e di impertinenze, mentre è semplicemente un panottico, di grammaticature e pertinenze, diverse, nella girandola della mutevolezza, piena di impurità e soggettività, in una scommessa e in un’avventura, da continua sperimentazione laboratoriale, di idee e di altro, punto nodale della vita fantastica, irreale, virtuale.

L’arte di Marì è tutta qui, si potrebbe dire, tutta in questo contesto, rappresentando l’ultima alchimia possibile, l’ultimo gioco dell’estrosità e del nomadismo, dello scambio simbolico, non solo possibile, ma necessario, dove luce ed ombra stanno in equilibrio, in una equazione, tanto che le varie forme creative, s’intrecciano vicendevolmente, per scavare a fondo e per ergere a vetta, negando fondi e vette, per non negare se stesse, per continuare a sondare nel disordine e dargli un volto.

Prof. Pasquale Lettieri
Critico d’arte