di Prof. Paolino Cantalupo
Psichiatra e scrittore
Il 3 luglio di quest’anno compare su Science un articolo che smantella un dogma della biologia. Il cervello è un organo che si rigenera. Si pensava che dall’adolescenza in poi il cervello smettesse di generare nuove cellule nervose. Nel Karolinska Institutet di Stoccolma, grazie al machine learning, si è scoperto, invece, che anche le cellule neuronali si dividono sempre generando nuovi neuroni. Neuroni spesso diversi nella forma e nella struttura, con assoni meno o più lunghi, quindi con capacità minori o maggiori, rispetto alle cellule madri, di connettersi e di elaborare informazioni.
Questo cosa vuol dire? Vuol dire che il cervello cambia struttura e funzione continuamente.
In anni meno recenti, il premio Nobel per la medicina Gerald Edelman dimostra con la risonanza magnetica funzionale per immagini che ogni nuova informazione (emozione, incontro, immagine, ecc.) nel cervello non si aggiunge alle altre, come se il cervello fosse un deposito. Ma modifica tutte le tracce memoriali precedenti.
Edelman ci spiega che ogni informazione nuova fa rientrare e riconnette gruppi di neuroni e memorie, rimescolando connessioni cerebrali e nuovi processi generativi di senso.
Dunque, struttura e funzioni del cervello cambiano continuamente. E, con essa, la soggettività.
La conclusione è che il cervello è un organo proteiforme e plastico che continuamente muta. E allora, come possiamo ancora parlare di identità? Niente nel nostro cervello è identico.
Possiamo definire l’identità come una inerzia residuale all’interno di processi mentali molteplici e mobili.
Questa visione pone un grosso problema alla psichiatria: la malattia mentale è la frantumazione dell’identità e dell’io, o piuttosto, essa è un un eccesso di identità? Maniere antiche e sclerotizzate di analizzare la psiche vengono scardinate. Le terapie devono rafforzare l’io, o smanellarlo?
In verità, come le neuroscienze ci dimostrano, l’identità è un’illusione confortevole, un’allucinazione fondamentale dell’essere.
L’identità non è la nostra patria, ma la nostra prigione. L’identità costipata e chiusa, l’identità che non respira, il cervello immobile che non cambia: questa è la malattia. Le connessioni fisse, che più non si ricombinano, sono la patologia.
Una patologia che spesso porta alla morte. Le guerre, infatti, si fanno per interessi economici, ma concretamente nessuno va a morire o uccide in nome del prodotto interno lordo. Nessuno si è mai fatto saltare in aria gridando “viva il petrolio!”. Concretamente si muore e si uccide in nome di un’appartenenza, in nome di un dio, in nome di un’identità.
Ora, dopo aver fatto chiarezza sulla natura dell’essere, poniamoci un altro problema. È giusto lo stigma di persone che, colpevoli di qualcosa nel passato, dopo aver pagato il prorio debito con la società, continuino a subire lo stigma della passata colpa?
Una giornalista coraggiosa, Letizia Bonelli, si pone l’obiettivo che ogni uomo possa cancellare memorie digitali (ormai superate) della propria storia personale. Diritto, insomma, all’oblio del proprio passato. Da un suo articolo leggiamo:
“Il diritto a non essere incasellati come un algoritmo. Frammenti del passato che si comportano come sentenze immobili, ingombranti, ingiuste. La memoria digitale rimane lì, scolpita nel silicio… Inchiodati a una vecchia notizia, a una colpa superata… Persone che vogliono vivere senza essere perseguitate dalla loro ombra digitale”.
Persone che, ovviamente, sono cambiate, come ogni persona cambia. Il diritto all’oblio digitale è tutelato da una legge del 2018, ma i procedimenti sono complessi. E andrebbero snelliti.
Altre questioni questa teoria psichiatrica pone alla giurisprudenza e alla medicina legale. Questioni, però, a scanso di ogni equivoco, che non possono e non debbono inficiare in alcuna maniera la responsabilità personale di ciascuno per le proprie azioni.