Di Letizia Bonelli
L’estate, da sempre, è il tempo dell’aria, della pelle, della libertà. Il corpo respira, si scopre, si mostra. Non per esibizione, ma per natura, per esigenza di vita. Eppure, proprio in questa stagione di luce, il giudizio si fa più feroce. E non arriva da uno sguardo umano, ma da una lente amplificata: lo smartphone, il social, la rete.
Abbiamo creato un mondo dove il corpo è perennemente sotto osservazione, e ogni centimetro di pelle diventa campo di battaglia per commenti, offese, umiliazioni.
Chi non rientra nei canoni troppo magra, troppo formosa, troppo anziana, troppo qualunque finisce nell’occhio del ciclone.
Non c’è pietà, non c’è misura. Solo like, scherno, viralità.
Ma chi ha deciso che il corpo deve essere un campo da giudicare?
Da quando la libertà di mostrarsi con leggerezza, con verità è diventata un atto rischioso?
C’è una forma di violenza sottile, ma devastante, che si consuma d’estate la violazione della libertà corporea attraverso il giudizio digitale.
Non c’è bisogno di insulti espliciti. Basta un meme, una foto scattata di nascosto, un commento ambiguo.
Ed ecco che la persona si trasforma in bersaglio.
In un tempo in cui la reputazione si costruisce o si distrugge anche in spiaggia, il diritto all’intimità diventa un atto di resistenza.
Il corpo, che dovrebbe essere spazio sacro, diventa oggetto pubblico.
E ogni espressione di sé un vestito, una posa, un sorriso può diventare arma a doppio taglio.
Serve una rivoluzione dello sguardo.
Serve dire, chiaramente, che nessuno ha il diritto di offendere, schedare o diffamare un corpo.
Perché la dignità non è legata a una taglia.
Perché la bellezza non chiede il permesso a un algoritmo.
Perché ogni corpo è un tempio.
E nessuno ha il diritto di profanarlo, nemmeno con una battuta.
Chi fotografa, commenta, ironizza, forse ha dimenticato che dietro ogni pelle c’è una storia.
E che ogni storia merita rispetto, non sarcasmo.
L’estate dovrebbe essere il tempo della libertà. Non della gogna.