La noia, la passione, la curiosità, il desiderio di vincere, di socializzare, di distrarsi dalla routine quotidiana e di sentirsi adeguati sono solo alcuni degli elementi che spingono gli adolescenti ad immergersi in esperienze virtuali mediante l’utilizzo di videogiochi.

Giocare non è patologico in sé, neppure se si tratta di giocare ai videogame, perché, fatto senza esagerazioni ed esasperazioni, è addirittura un comportamento sano, virtuoso e fruttuoso.

Il computer gaming è un ottimo strumento per potersi sperimentare in processi decisionali e di autonomia, accrescendo il potenziale di autoefficacia personale e migliorando le relazioni interpersonali e sociali.

L’aspetto puramente ludico dell’uso dei videogiochi lascia posto alla patologia allorché i ragazzi si rifugiano nel mondo fittizio e irreale di giochi, sia online che offline, per regolare le proprie emozioni e per nascondersi da disagi del mondo reale vissuti sulla propria pelle.

L’adolescente potrebbe, pertanto, ritrovarsi a scappare, letteralmente, dalla propria vita, una vita che non sente propria e che, intimamente, è percepita come fonte di sofferenza da lenire e come dolore inesprimibile ma, al contempo, atroce e tangibile.

E allora i videogame assumono un aspetto tragico che allarma, destando grandi e fondate preoccupazioni negli adulti di riferimento di molti ragazzi.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel maggio 2019, ha ritenuto opportuno inserire formalmente la dipendenza da videogiochi nell’aggiornamento dell’International Classification of Diseas (ICD-11), con il nome di “gaming disorder (GD). Il tutto entrerà in vigore soltanto nel 2022.

Secondo l’OMS per poter parlare di dipendenza videoludica si devono osservare comportamenti persistenti e ricorrenti legati al gioco, offline e online, che assumono la priorità rispetto alle altre comuni attività svolte tipicamente in una giornata, conducendo ad un mancato controllo sul gioco e su eventuali escalation del gaming, nonostante le conseguenze che possono derivarvi.

Sono veri e propri inabissamenti in mondi che, fattualmente, non esistono e che sostituiscono la realtà condivisa e condivisibile, conducendo a vertiginosi e spaventosi distacchi dalla propria esistenza. Sono fughe che, talvolta, possono trasformarsi in epiloghi fatali, seppur evitabili.

Le storie dei nostri ragazzi che si trasformano in giocatori patologici di videogiochi, superando confini pericolosi senza consapevolezza alcuna, sono storie di bambini e adolescenti che, spesso, non tollerano la frustrazione e che non sanno regolare la noia. Non sono certamente qui a dire che sono inetti o inadeguati, tutt’altro, in quanto ho, piuttosto, l’intento coscienzioso di contemplare la possibilità di intervenire efficacemente sulle life skills di chi è in fasi delicate della crescita, richiedendo attenzione e presenza di adulti pienamente consapevoli.

Il gaming disorder, inoltre, è un fenomeno che va di pari passo con la tecnologia, un mondo che, se usato con adeguatezza, facilita e non distrugge. Si pensi a quanto sia stato utile nell’attuale pandemia.

È necessario, dunque, affrontare dissertazioni di questo tipo con onestà intellettuale e oculatezza, per definire i confini tra ciò che è funzionale e ciò che è disfunzionale senza scivolare in facili e demonizzanti allarmismi.

Ci tengo a sottolineare, altresì, che una cospicua letteratura scientifica afferma la validità dei videogiochi anche nella cura di disabilità fisiche e intellettive poiché sono ausili capaci di veicolare, concretamente, contenuti che stimolano processi cognitivi di astrazione nonché di problem solving e che favoriscono l’attenzione e la memoria, migliorando, nel complesso, la salute, la flessibilità cognitiva, gli apprendimenti e le abilità di diversa tipologia. I videogiochi sono, inoltre, anche alleati significativi nel trattamento della sintomatologia del disturbo post traumatico da stress (PTSD).

Ritornando al gioco compulsivo e alla dipendenza vera e propria, invece, possiamo, facilmente e tristemente, ritrovarci ad essere spettatori di scenari in cui i ragazzi sono in preda a crisi, anche violente, laddove gli venga impedito di giocare. Sono adolescenti incollati a schermi di console, persi come vagabondi senza nessuna meta, se non quella di conquistare vite, sconfiggere mostri, lottare con forza cruenta i demoni, a seconda del gioco che si sceglie. Non riescono, di fatto, a staccarsi dallo schermo di gioco perché sono immersi in un’attività gratificante e non hanno ancora maturato, da un punto di vista cerebrale, la capacità di interrompere intrattenimenti appaganti. Per essere più precisi, la corteccia prefrontale, zona del cervello deputata al controllo degli impulsi e a funzioni decisionali, è in fase di pieno sviluppo. Inoltre, i videogame sono stimolanti perché si basano su continui e costanti elargizioni di premi che possono essere alla base di rilascio di dopamina, il neurotrasmettitore del piacere. Quanto appena detto si presenta in forme e modalità aggravate in casi di dipendenza da gioco conclamata come patologia.

Il genitore come può rispondere a situazioni simili, con il chiaro obiettivo di preservare e tutelare la salute psicofisica del figlio?

Anzitutto, senza entrare in scontri conflittuali dolorosi e controproducenti, sarebbe un braccio di ferro perso in partenza, capace di peggiorare circostanze già compromesse. È doveroso stabilire, fin da subito, poche regole, chiare e condivise, sull’uso dei videogiochi e di tutti gli strumenti digitali e virtuali per evitare di sprofondare, in un secondo momento, nel baratro dell’interconnessione selvaggia senza tempo e senza punti di riferimento reali e sicuri.

Le regole, senza essere accompagnate da spiegazioni, da informazioni e da un dialogo di fiducia, varrebbero a ben poco perché alimenterebbero nel ragazzo soltanto un senso di sfida e di punizione.

Non si può prescindere da un rapporto attivo basato su una fiducia inossidabile e collaborativa tra adolescenti e caregivers, fiducia che si costruisce nel tempo con pazienza, costanza e capacità di ascolto attento.

Dopo questo primo e basilare passaggio, è necessario che i genitori regolino le proprie emozioni e la propria impulsività anche quando sono scoraggiati dinanzi a situazioni-limite in cui i figli hanno perso la percezione del tempo e dello spazio, smarrendosi in realtà rischiose e virtuali e dissociandosi dal presente concreto. Genitori non regolati arriverebbero, probabilmente, a sequestri di giochi e di dispositivi, a punizioni estreme e a interruzioni brusche e burrascose di attività ludiche in corso. Tali impeti genitoriali non controllati si tradurrebbero in escalation emotive in cui si attivano comunicazioni difficili e distruttive, di certo non risolutive quanto piuttosto peggiorative.

Un genitore regolato, invece, ha l’opportunità di aiutare il figlio a non disregolarsi emotivamente, riducendo in questo modo i suoi comportamenti dannosi e disfunzionali e preservando il suo benessere e quello dell’intero sistema familiare. Il vantaggio sarebbe, inoltre, quello di agire non in preda all’aggressività ma in maniera assertiva e funzionale, concedendosi la tranquillità di proporre ai figli attività alternative, interessanti e attraenti, da poter svolgere anche insieme.

Gli adulti tengano conto che il comportamento target, rappresentato dall’abuso e dalla dipendenza dai videogiochi, è un dato da non considerare in modo asettico e parziale quanto piuttosto come un indicatore rilevante di bisogni sottesi non soddisfatti. Lo sguardo attento e consapevole dell’adulto si alleni, quindi, a guardare sempre oltre e al di là delle manifestazioni comportamentali più evidenti.

Gli adolescenti non sono “rotti” o “sbagliati” ed è importante non farli sentire in questo modo, intrappolandoli così in giudizi di valore con il rischio di compromettere la costruzione della loro identità e di creare disagio, sofferenza e condizioni psicopatologiche.

I ragazzi che cercano di scappare da stati mentali dolorosi e da bisogni emotivi insoddisfatti, e che si rifugiano in luoghi paralleli di attività e strumenti digitali, stanno chiedendo di essere visti, attenzionati e sostenuti perché sono caduti nel subbuglio di un indicibile isolamento mentre cercavano di difendersi da ciò che non hanno saputo esprimere.

Chiedono la condivisione di sguardi per potersi muovere con fiducia, stabilità e sicurezza, chiedono di essere amati ma riescono a farlo, paradossalmente, distaccandosi da ciò che è reale, con modalità comunicative, apparentemente, alienate e anaffettive.

Ancora una volta ci vorrebbe un ascolto gentile, interessato e autentico che permetterebbe di prendere per mano e di accompagnare i propri figli e ragazzi nel delicato processo di crescita e di autonomia esistenziale di una vita degna di essere vissuta.

Dott.ssa Rosetta Cappelluccio
Psicologa Psicoterapeuta