Killfie: morire per un selfie

Sono numerose e quotidiane le notizie di adolescenti che mettono a rischio la propria vita pur di realizzare scatti di foto “spettacolari” da postare sui propri profili social. Si tratta di un fenomeno che sta destando preoccupazione e sconcerto nel mondo intero, è la moda del “killfie” o “darevil selfie”. La definizione, apparentemente semplice nella traduzione di “selfie che uccide”, in realtà consta di più sfaccettature; infatti, con il termine “killfie” ci si riferisce sia agli scatti (foto e video) prima di un incidente fatale sia agli scatti con persone e animali morti. Questi ragazzi ricercano popolarità? Il problema reale e di fondo è proprio la ricerca di like? La disamina, in realtà, merita di essere approfondita e dettagliata per evitare di cadere nella trappola di un Paese ove ci si cura più degli effetti e delle conseguenze che del problema stesso, fermandosi sul sensazionalismo del fatto di cronaca che spaventa e aberra. I dati attuali sono allarmanti e preoccupanti, come riportato nel rapporto Italia 2019 dell’Eurispes in 6 anni, tra il 2011 e il 2017, nel mondo ci sono state 259 vittime per selfie estremi scattati in luoghi e situazioni audaci. 1 adolescente su 10 fa selfie pericolosi e oltre il 12% è stato sfidato a fare un selfie imprudente per dimostrare pubblicamente il proprio coraggio. Cosa sta succedendo a questi ragazzi? Come possiamo aiutarli a riconoscere e ad esprimere i propri bisogni senza aspettare che ricorrano a gesti estremi per essere visti e attenzionati? Per quanto riguarda cosa sta succedendo agli adolescenti, mi soffermerei anzitutto sul concetto di noia. Viviamo un tempo in cui si allevano i figli con ritmi fondati sulla fretta e sull’ansia, sembra che ogni cosa debba essere fatta nell’immediato per non perdere tempo, c’è la paura di rimanere senza “far nulla”, nel fermarsi si percepisce un pericolo e si fa di tutto per rimanere nella dinamicità della vita che scorre veloce e senza tregua. In tale andamento, sembra non trovi spazio l’espressione delle emozioni, della noia nello specifico, ed è per tal motivo che i genitori preparano costantemente alternative pronte e confezionate ai propri figli, evitando che si annoino.

Questa fatica certosina dei genitori permette ai figli di essere sempre soddisfatti, arrecando il grave danno di non far conoscere loro la frustrazione; in questo modo i figli, fin da piccoli, sono abituati a provare sempre qualcosa di nuovo e di piacevole ma che dura solo nel breve periodo, innescando pertanto un circolo vizioso in cui si dovrà cercare sensazioni sempre più forti per mantenere alto il livello di soddisfazione a cui si è abituati. In effetti, il bisogno che sta dietro ai selfie estremi, ove con semplicità e leggerezza si mette a repentaglio la propria vita, ha a che fare con la necessità di mantenere sempre alti i livelli di eccitazione perché risulta sempre più complicato gestire ed esprimere le proprie emozioni. Per far sì che questo possa realizzarsi, gli adolescenti vanno costantemente oltre, e non lo fanno solo attraverso scatti estremi ma mettendo in atto tantissimi altri comportamenti disfunzionali. Cresciuti in ambienti dove tutto è possibile e realizzabile, non resta loro che adattarsi, è come se non avessero più la possibilità di sperimentarsi gradualmente in prima persona, non imparano, quindi, ad afferrare il lato positivo e vitale della noia, la capacità di ingegnarsi per così inventare a partire da se stessi. Il rischio è grosso perché, piano piano, le alternative pronte e confezionate da altri si esauriscono, gli stimoli risultano essere sempre meno e anche meno soddisfacenti; giunti a tal punto gli adolescenti, per sentirsi vivi, sentono il forte bisogno di alzare l’asticella, di alzare la posta in gioco, perdono la consapevolezza di se stessi e dell’importanza della propria esistenza, e nella massima disregolazione emotiva le provano tutte. Il punto cardine sta nel rinforzo del comportamento rischioso perché nel momento in cui si spingono oltre in uno scatto estremo e pericoloso e gli va bene provano quanto sia soddisfacente sentirsi onnipotenti e invincibili, e allora continuano a mettersi ancora a rischio nella certezza di essere forti e coraggiosi. É qui che trova posto l’approvazione degli altri e dunque i like.

É qui che entra in gioco, inoltre, anche il rapporto con un’altra fondamentale emozione ossia con la paura. Sentirsi invincibili significa sfidare se stessi, gli altri e il mondo senza tenere conto dell’importanza che evoluzionisticamente ha la paura. Non tenere conto dei pericoli reali si traduce in un mancato adattamento e, quindi, di conseguenza salta il concetto di sopravvivenza della specie umana. Quanto appena detto dimostra che i selfie estremi e le sfide che, in genere si diffondono velocemente in rete, non sono giochi innocenti che tipizzano semplicemente la fragilità di un’età particolare, quale l’adolescenza è. Sono tutt’altro, sono fenomeni allarmanti degni di nota, ove il rischio di fondo è la vita dei nostri ragazzi. Ancora una volta, non basta stupirsi dinanzi ai fatti di cronaca, non basta perché un fatto di cronaca, per definizione, è un fatto già accaduto e, dunque, su cui non abbiamo più possibilità di azione, allarmarsi su ciò che è avvenuto non vuol dire poter recuperare, e non recuperare in questo contesto significa perdere vite umane. Arriverei quindi alla seconda domanda che mi sono posta all’inizio di questo articolo: “come possiamo aiutare gli adolescenti a riconoscere e ad esprimere i propri bisogni senza aspettare che ricorrano a gesti estremi per essere visti e attenzionati”? Anzitutto, si tratta di porre attenzione alle modalità educative messe in atto durante il percorso di maturazione dei propri figli. Non basta purtroppo colpevolizzare e demonizzare la rete che sicuramente risulta essere uno strumento che amplifica i comportamenti disfunzionali e le sofferenze, ma che non può contenere tutti gli errori e le devianze possibili ed immaginabili. Sarebbe un concetto semplicistico e riduttivo che non risparmierebbe gli adolescenti da meccanismi che uccidono e che mietono costantemente vittime. É importante piuttosto che i genitori, e anche tutte le altre agenzie deputate alla crescita e all’educazione, si interroghino sulla propria capacità educativa, fermandosi a riflettere, in particolare maniera, sull’importanza della regolazione delle emozioni, concetto alla base dei comportamenti umani. Spendere tempo, durante la maturazione evolutiva dei propri figli, su cosa siano le emozioni e sulla loro importanza, cercando in prima persona di imparare a farlo per poi trasmetterlo, sarebbe un dono prezioso da fare a se stessi e ai propri figli. Sarebbe importante cercare anche la collaborazione pacifica e proficua con le istituzioni che entrano in contatto con i propri bambini e ragazzi. Il compito educativo è arduo ma non impossibile, tanto i genitori possono apprendere per non incappare in sofferenze inutili ed evitabili, ma soprattutto per mettere in salvo i propri figli da pericoli vacui ma realmente esistenti, per aiutare i propri figli ad alzare l’asticella verso obiettivi reali, raggiungibili, e realizzabili. Si porterebbe a compimento ciò a cui un genitore è chiamato a svolgere, insegnare ad andare verso scopi esistenziali che elevino e che costruiscano piuttosto di annullare, distruggere e di annichilire.


Dott.ssa Rosetta Cappelluccio
Psicoterapeuta cognitivo-comportamentale
Docente e supervisore Istituto A.T Beck Roma e Caserta
Conduttrice gruppi DBT adulti e adolescenti
Consulente tecnico d’ufficio per trauma neglect e abuso
Responsabile ambulatorio psicopatologia ospedale Buonconsiglio
Fatebenefratelli Napoli