Dionisiaca. L’universo fotografico di Antonio Cilurzo

La tecnica della fotografia, la cui relativa facilità, la rende vicina, abbordabile, per cui in essa, nella sua metaforica corporalità si può andare dalla foto ricordo di nessun valore artistico e a volte nemmeno documentario, alla grande creazione artistica, sfiorando, non di rado, l’olimpo del capolavoro. La presenza della fotografia è diventata talmente endemica, da caratterizzarsi come forma ricca del linguaggio della comunicazione e come sua opposizione dialettica, nell’espressività, visto che tutto è dinamismo e movimento, a cui la foto oppone il suo fermo immagine, la sua percezione immediata, che nel momento in cui si stampa, ci presenta una certa estraneità. La prevalenza artistica della fotografia è data sempre, dal suo alto grado di consapevolezza, dell’oggettivo, del reale, in quanto sia che nasca a contatto col mondo, sia che scaturisca da una manipolazione in studio, ha bisogno, sempre, di un altro da sé, il cui nome è variamente definibile, oppure, anche, enigmatico, ma è sempre lì, ad offrirsi, a negarsi ed è, l’occhio dell’artista, prima che l’occhio della macchina, a scrutarne le segrete qualità espressive e le latenti valenze comunicative. Antonio Cilurzo che è sempre al limite di una composta spregiudicatezza, propone geometrie della sensualità, che chiamano alla mente, chiamano alla riflessione, citando Duchamp, ma anche alla mistica zen e alla ricerca dei readymade, parlando di rigore, di scelta, che caratterizzano il suo gioco d’interni e di esterni, d’impossibili scene monumentali, di astrazioni e figurazioni date dalle misure della distanza. La dialettica delle sue opposizioni poetiche, entro cui viene a situarsi un intero universo immaginario, a lui riferibile, è caratterizzata da una assoluta capacità di mettere in scena un frammento del visibile, con un variabile tasso di causalità associato ad uno speculare indice di casualità come sempre avviene nel regno dell’invenzione, che è fisica e metafisica, insieme, nell’assoluto senso dell’enigma.

Proff. Pasquale Lettieri e Antonio Cilurzo

Antonio Cilurzo sposta l’asse della visione fotografica, sempre più verso una connotazione inquietante, facendo recitare al suo paesaggio ed agli inconsapevoli protagonisti umani, una sua parte dionisiaca, febbrile, proprio perché sembra non succedere niente e tutto è sospeso in una dimensione spaziale che è, anche, temporale, perché il tempo è la forma delle cose e la forma è sintassi dello spazio, grammatica della sua costruzione di un teatro dell’assurdo, dove il non accadere, diventa il suo esatto contrario, anche se ognuno può darne un’allucinazione propria, dove potrebbero apparire sia Ionesco che Ibsen, ma anche sagome e nudi di donna, monumenti e archeologie. Con questo non voglio affermare una poeticità assillante di Cilurzo, i cui orizzonti non sono limitati da nessun hortus conclusus, perché lui è un viaggiatore instancabile, in corpo e anima, ma soprattutto con la fantasia che cambia le coordinate del prima e del dopo, dell’alto e del basso, perché ogni vedere, non è altro che un modo di vedere, il testo di una possibile narrazione visiva, capace di evocare parole, pensieri, azioni, che non sono né vere né false, perché sono altre, appartenenti ad una tradizione del nuovo, del sorprendente, che ha tanti padri e tante madri, maestri e maestre di un modo di inserire la vita nel sogno e di fare del sogno, la dilatazione di un vedere che è saper vedere, che allarga gli orizzonti ad ogni ristrettezza, chiamandola col suo vero nome contemplazione. Antonio Cilurzo propone fotografie, la cui acutezza testimonia di un eclettismo declinato a tutto campo, con al centro il soggetto umano, cioè il creatore dello spettacolo che diventa esso stesso l’oggetto d’indagine, sia dal punto di vista psicologico che da quello fisico, componendosi e scomponendosi, come se fosse un libro aperto sulla storia e sull’attualità dell’immaginario, che ci vede la centro, sia come occhio che sta dietro la macchina fotografica, proponendosi come regista del mondo, sia come occhio che guarda l’obiettivo per dare di sé una riproduzione addomesticata, se non falsa, non riconoscendo mai soggettività vera e propria alle forme e alle situazioni erotiche e sensuali, che nel loro anonimato fanno da sfondo nello sfondo. Un filo rosso disseminato sul nostro disordine, nel caos e nell’alienazione della società dello spettacolo, che il maestro accoglie come spettatore, rilevabile solo numericamente, senza nome, senza cognome.

Prof. Pasquale Lettieri
Critico d’arte