Dall’anta alle timogne

Ruderi Rocca Angitola con lago

La piazza del paese di Maierato, sito nei pressi del lago Angitola, è stata tra la senconda metà dell’Ottocento e per la prima metà del Novecento, il luogo ideale dove tanti contadini del luogo mettevano a disposizione le proprie braccia, le proprie abilità, la propria falce per intraprendere il lungo periodo della mietitura, generalmente tra 40 e 50 giorni (da metà giugno a poco più della metà di luglio) presso le masserie del paese, per quelle poche lire al giorno a garantire alla propria famiglia l’opportunità di mangiare la carne almeno durante le feste e abbandonando, per un periodo, quell’alimentazione fatta a base di erbe condite o stranghijati (soffritte).

Si lavorava per lo più a scarza, ovvero senza l’offerta del pasto (per guadagnare di più) da parte del massaro che richiedeva l’attività lavorativa. Sulla e un pezzo di pane, olive e del pane duro, un semplice pugno di fichi secchi, costituivano il cibo durante la breve pausa lavorativa. All’anta (linea di inizio del campo da mietere) i contadini si predisponevano con la propria falce: a destra della linea-anta si posizionava ‘u caporali il capo mietitore (figura di maggiore esperienza); a sinistra prendeva posizione ‘u cuderi ovvero l’ultimo della fila. Al primo il compito di stabilire la sosta per il pranzo o chiamare l’acqua: di chiedere che qualcuno portasse a gozza (brocca) per dissetare i mietitori.Due figure che nell’insieme delineavano la dimensione del campo di grano che doveva essere falciato, quanto il tempo che bisognava lavorare: Da qui il detto popolare maieratano:

quandu lu suli pigghja la calata
a lu patruni ‘nci scura la vita.

(quando il sole comincia a tramontare/ al padrone [mai pago del lavoro] gli tramonta la vita)

 Dietro di queste persone, la cui giornata di lavoro andava dall’alba al tramonto, le donne che svolgevano il ruolo di ligaturi,  preparavano, cioè, a gregna – il fascio necessario – che veniva legato con filamenti dello stesso grano per poi essere trasportato a formare i cavagghjuna piccoli covoni che, successivamente, venivano trasportati all’aria (il luogo dove le trebbiatrici azionate con la forza dei trattori) con i carri o con gli asini o sulla testa di donne che ricordano figure mitologiche che, con a curuna, la corona di stoffa a proteggere la testa e realizzare le timogne, cioè i grandi covoni – piramidi fatti di fasci di grano alla cui cima veniva posta una croce fatta di ulivo benedetto durante la Domenica delle Palme, e steli di grano quale simbolo propiziatore per la buona annata.

Il rumore del trattore annuncia l’arrivo della trebbiatrice nell’aia, dove già sono state allertati una serie di lavoratori: i civaturi, uomini che prendono le gregne dalle timogne e li mettono sul nastro della macchina, che li trasporta all’interno della stessa, dove il battitore formato da spranghe di acciaio strofina la gregna  su di una rete metallica. Pertanto,  la paglia esce da una parte, la pula dall’altra e il grano pulito va nella gramoia (vaglio) e, passando varie fasi di ventilazione, si riversa nelle misure in legno detti ruveju (recipiente in legno di varie capacità). Spesso erano necessari più giorni per finire il lavoro della pisatura (trebbiatura).

Tutto è azionato da strisce larghe di cuoio collegati ai rulli del trattore e da questo a quelli della macchina trebbia che, nell’insieme, danno il ritmo operativo a cui sono addetti, per il buon funzionamento, “i macchinisti”, mentre le donne trasportano le balle di paglia in appositi spazi, altre portano sulla testa i sacchi di grano da  riversare e riempire  le saladde: i grandi sacchi all’interno della casa patronale e, altre ancora, preparano il pranzo con insalate di pomodoro e cipolla, uova fritte, fileja cu’ sucu, olive.

Chi se lo poteva permettere, per l’occasione metteva sul tavolo – quasi sempre fatto di balle di paglia- u capicoju (il capicollo) e u gaju (il pollo). fritto o al sugo Naturalmente non poteva mancare il buon vino robusto maieratano. Oggi la trebbiatura viene svolta con le macchine (a metitrebbia), che riducono i tempi e la gravosa fatica degli uomini, ma ha perso il senso della festa, dello stare insieme di quel sentire l’anima, il cuore pulsante degli uomini veri che hanno segnato questa storia della terra e del grano

Prof. Pino Cinquegrana
Antropologo