Arrivano le opere di Anish Kapoor a Monte Sant’Angelo

Dopo sette anni di abbandono e degrado a causa di contenziosi con le imprese appaltatrici, nel settembre 2016 è ripartito il cantiere della stazione di Monte Sant’Angelo, che ospiterà le due sculture commissionate nel 2003 allo scultore anglo-indiano Anish Kapoor (Bombay, 1954). Dalla forma di imbuto rovesciato, realizzata in acciaio corten, sarà posizionata a uno degli ingressi della struttura; l’altra, in alluminio, presidierà l’altro ingresso, ma dovrà attendere il 2019 per essere montata. A Kapoor Napoli piace, non ha mai fatto mistero di sentircisi come a casa, anche perché vi ritrova un po’ delle colorate atmosfere della sua Bombay. Confessando scherzosamente come non gli dispiaccia nemmeno “l’anarchia” che regna in città, prova provata di una vitalità mediterranea senza pari. La relazione fra l’artista e la città prese avvio nel lontano 2000 con l’istallazione del celebre Taratantara, una sorta di gigantesco papillon rosso aperto ai lati, collocato al centro di Piazza del Plebiscito fra Palazzo Reale e la basilica borbonica di San Francesco di Paola. Tre anni più tardi, il Museo Archeologico gli dedicò la prima monografica italiana, che incluse anche due opere site specific, mentre nel 2007 il MADRE acquisì Dark brother, suggestivo tappeto scuro “galleggiante” fra pieni e vuoti, un buco nero metafora dell’insicurezza contemporanea. L’ultima avventura risale allo scorso ottobre, quando si è conclusa la mostra presso Casamadre, la galleria di Eduardo Cicelyn. L’imponente scultura/architettura, progettata da Kapoor, proietta l’immaginario dell’arte post moderna, in un’ampiezza labirintica di forma, che permette ogni tipo di confronto, a partire da quello con la luce, finalmente, non centellinata in tanti orrendi lumicini che fanno teatro a sé, negando ogni visibilità ed ogni protagonismo, come accade in troppi luoghi delle arti visive, alle opere grandi e alle opere piccole, in un gioco screanzato di ombre, in omaggio allo spirito del pittoresco e al narcisismo della mediocrità. Accanto alla luce, lo spazio, in altezza, in profondità, per dritto, per traverso, in modo che il piacere di vedere, sia profondo, libero di darsi la prospettiva più appropriata e di interagire con le opere provvisorie o permanenti, riscattando l’artisticità insita nell’architettura e dando architetturalità necessaria, alle opere di questo tempo del sublime, in cui tutto è “condannato” alla grandezza, anche l’estremamente piccolo, anche il microscopico. Quando è giusto dirla ed affermarla, la lode bisogna dirla e affermarla, in nome di una progettualità che comincia a realizzarsi, nella nuvola di Fuksas, nelle tre torri di Milano, nel ponte di Messina, dismettendo la disastrosa logica delle piccole cose, dell’utile, dell’indispensabile, nella cui mente non sarebbero nate, né la Torre di Pisa, né il Ponte di Rialto, né il Cristo Velato e la nostra ineguagliabile storia si sarebbe ridotta ad una micragnosa storiella di nessun valore. Dobbiamo continuare a produrre grande architettura e grande scultura, perché così potremo proseguire il cammino della storia e avere un grande presente, luminoso e capace di illuminare il passato, nella nostra urbanità e paesaggismo d’eccellenza, il cui emblema è il giardino all’italiana, in cui si integrano, natura e cultura, umane, umanistiche camminando su una corda tesa, che si chiama, fantasia, idea, poetica. Questa metropolitana/museo, in Napoli, può dare un forte colpo di acceleratore, a quanto cominciato col Madre e proseguito col Pan, in specchio con gli spazi museali, ricavati da edifici storici, come Castel Sant’Elmo, Palazzo Reale e Villa Pignatelli. Si tratta, quindi, di non fermarsi più e mettere il sigillo a questo nuovo secolo, del nuovo millennio, nel nome di una storia vissuta con orgoglio e nobiltà e di un presente, sempre più presente e sempre più futuro. In questo senso l’installazione di Ansih Kapoor, prima che una membrana che ci permette di infilarci nell’alchimia è un fatto enigmatico, primordiale e tecnologico, come si addice a questo nostro tempo, affascinato dai miti, ma anche capace di inverarli in organismi complessi, non più solo teatrali, ma simili al vero ed a volte, veri più veri del vero. Anish Kapoor si muove nel fascino di una cultura plastica, che viene da Brancusi, che viene da Moore, dalla tradizione astratta, dei monocromi compatti o movimentati, con una forte valenza rituale. Gli fa da contraltare, una selezione di opere di Betty Bee, Mimmo Paladino, Maurizio Cannavacciuolo, alchemici seminatori di figure, ora negate, in quanto cromaticamente del tutto oscurate o velate, ora trasfigurate, in identità perdute, nella rimozione, nella memoria dannata, sulla stessa lunghezza d’onda delle metamorfosi kafkiane, presi da una dannata voglia di non dire nulla, ma esprimere la propria alterità, in un grande monologo. Kapoor non si allontana mai dal sé, dalla propria visione plastica della materia, che è tutta un mondo inafferrabile, neuronale, documentato in grandi installazioni, che concedono tutto allo spettacolare, in cui la visibilità non è un obbligo e nemmeno una necessità. Un polo positivo ed uno negativo, si potrebbero dire Kapoor e Napoli, una volta che la sorte o la scelta, li ha voluti insieme, ma alla fine, tutti i profili e tutte le definizioni, rischiano d’apparire imbarazzanti e perversi ed è meglio che rimanga una terra di nessuno in mezzo, perché ognuno è uno e ogni altro è un altro.

Pasquale Lettieri